L'arte medievale non si era generalmente soffermata sui particolari della vita infantile di Gesù, considerata nelle fonti extra-bibliche, ma prevalentemente trascurata nei testi evangelici, preferendo indugiare sugli aspetti della sua attività pubblica, la predicazione e la Passione, di maggior interesse dogmatico. L'epoca rinascimentale dimostrò di privilegiare un genere di composizioni dove l'immagine di Cristo bambino, accanto alla Vergine e al piccolo san Giovanni Battista con santa Elisabetta, acquistava un significato fortemente simbolico; questa dimensione ideale era accentuata, talvolta, dall'inserimento di figure angeliche.
Il naturalismo barocco introdusse l'abitudine di raffigurare la Sacra Famiglia con connotazioni di maggior realismo. Si diffusero tenere rappresentazioni di vita domestica di cui sono protagonisti la Vergine, san Giuseppe e il Bambino, sovente ritratto mentre partecipa alla quieta operosità del padre falegname. La figura di Giuseppe, che nell'aneddotica delle varie natività e fughe in Egitto aveva assunto fin dalle epoche più remote un ruolo prevalentemente complementare e sussidiario rispetto ai protagonisti principali, la Madonna e Gesù Bambino, a partire dal secolo XVII, comincia a essere maggiormente rivalutata storicamente e a guadagnare crescente considerazione agli occhi degli esegeti e degli artisti. Si spiegano in questo modo i numerosi soggetti con interni della casa di Nazaret, dove il personaggio è reso in modo esteticamente accurato; con altrettanta precisione vengono documentati i gesti e gli strumenti del suo lavoro di artigiano (Murillo, Bartolomé Esteban La Sacra Famiglia, Chatsworth, collezione del duca di Devonshire). Nell'incisione di Jacques Callot, Il desinare della Sacra Famiglia lo sforzo di ottenere effetti di plausibile verosimiglianza raggiunge vertici di intenso contenuto sentimentale: Giuseppe, come un qualsiasi padre amorevole, aiuta il Bambino, compostamente assiso al desco familiare, a bere da un calice che appare troppo grande per le sue piccole mani. Ma anche queste immagini vive e di pacato tono narrativo, associabili al fiorire di nuove correnti devozionali, celano sottintesi messaggi allegorici, collegati alle istanze spirituali della Riforma cattolica. Negli utensili che il Bambino maneggia aiutando ed emulando in bottega il padre terreno, sono prefigurati gli strumenti della passione; il pasto domestico non è una serena pausa di ricreazione, ma un gesto sacramentale anticipatore del momento in cui Cristo vuoterà, metaforicamente, il calice doloroso del proprio sacrificio salvifico.
Parallelamente a siffatte iconografie, trattate con una certa dose di interpretazione e quindi di originalità artistica, si sviluppa un soggetto stereotipato di contenuto fortemente astratto. La Sacra Famiglia è raffigurata mentre è in cammino in una dimensione atemporale, il Bambino, sempre di cinque o sei anni, sta nel mezzo e tiene per mano entrambi i genitori. La scena normalmente si svolge al cospetto dell'Eterno, la cui solenne figura risalta nella parte superiore della composizione. Secondo un'interpretazione convenzionale, viene rappresentato il ritorno dall'Egitto (a questo proposito è celebre il quadro del Murillo nel Museo Nazionale di Stoccolma). Quando re Erode morì, un angelo apparve a Giuseppe in sogno e gli ordinò di ritornare con i suoi in Palestina (Mt 2, 19-23). Storicamente ci si riferisce al momento della morte di Erode il Grande, il persecutore degli innocenti ricordato dai Vangeli, avvenuta l'anno 750 di Roma. Nei tre personaggi il pensiero cristiano riconosceva una sorta di "terna divina" grazie alla quale veniva finalmente resa visibile agli uomini l'ineffabile grandezza della Trinità soprannaturale (L. Maselli, Vita della beatissima Vergine..., Venezia 1610). Inoltre l'immagine del Padreterno, che osserva compiaciuto l'affettuosa concordia tra i membri della famiglia terrena, introduceva il tema delle "due Trinità" (Murillo, Bartolomé Esteban The Heavenly and Earthly Trinities; National Gallery, Londra), apparso alla fine del Cinquecento nella letteratura controriformistica. Si affermava così la corrispondenza tra il Cielo e la Terra, collegati tra loro idealmente dalla figura del Fanciullo (figlio di Dio, ma al tempo stesso vero bambino, soggetto all'autorità puramente umana del proprio genitore putativo, Giuseppe). Solo nelle immagini popolari viene mitigato quell'aspetto ieratico e tendenzialmente solenne tipico di queste rappresentazioni. Le stampe popolari, proprio perché concepite per l'uso individuale e la contemplazione devota, per essere maneggiate con disinvoltura e affisse sulle pareti della casa o nei luoghi in cui si svolgevano le normali attività del lavoro, compresi gli ambiti più umili e inospitali, non rinunciano mai a una comunicazione immediata, tesa a persuadere l'osservatore attraverso il coinvolgimento emotivo e sentimentale. Infatti, la definizione adottata per tali materiali è, non a torto, quella di immagini "parlanti".
Non è possibile comprendere appieno il linguaggio dei fogli popolari a stampa senza fare qualche accenno ai loro principali caratteri morfologici. In questo modo sarà più facile apprezzare sia l'aspetto formale che il contenuto dei vari saggi presentati in questa sede.
Il processo di creazione delle immagini popolari è argomento di singolare profondità e complessità. Infatti, attualmente, è venuto meno il credito verso la realtà mitica di un'arte fatta dal popolo e per il popolo, così come era romanticamente abbozzata nella mente dei folcloristi di inizio secolo. Inoltre è stato progressivamente messo in discussione il concetto stesso di popolo inteso riduttivamente come mera entità sociale subalterna, fornita di caratteri espressivi assolutamente genuini e autonomi rispetto alle tendenze culturali delle classi dominanti.
Dal punto di vista critico, infatti, è ormai possibile parlare di elaborati d'arte "popolare" semplicemente comprendendo in tale definizione soprattutto l'area della destinazione di un prodotto e quindi del suo consumo. In questo modo si possono evidenziare facilmente ceti e categorie di utilizzatori di immagini che privilegiano la rappresentazione di precisi assunti figurativi. Esistono contesti sociali in grado di determinare esattamente, con il loro favore e un atteggiamento di preferenza costante, quali doti di forma e di contenuto debba possedere un'opera d'arte per essere apprezzata come veramente popolare.
Più precisamente: è opinione ormai condivisa ammettere che soggetti e stili generalmente muovono dall'arte colta verso livelli di fruizione inferiori e quindi verso la possibilità di ricezione da parte di strati sociali talvolta culturalmente inevoluti, o persino illetterati che se ne impadroniscono in modalità generalmente passive, trattenendo e valorizzando dei prototipi illustri solo le vestigia esteticamente più rozze e involgarite. Tuttavia per evitare semplificazioni superficiali occorre riconoscere che molto spesso sono gli stessi "consumatori" a intervenire attivamente per indicare quali principi formali debba possedere un'immagine colta per piacere alla sensibilità popolare. In questo modo i motivi artistici possono anche discendere verso il cosiddetto popolo, ma a deciderne le qualità sociali e quindi il successo sono in fondo gli stessi destinatari.
L'intervento si può attuare in modalità molto differenti, talvolta confuse, altre volte invece piuttosto precise, come cercheremo di dimostrare attraverso alcuni esempi documentati più oltre. La selezione che in questo modo si opera "dal basso" può configurarsi alla stregua di un vero e proprio fenomeno di condizionamento culturale, efficace anche se spesso inconsapevole, in grado di trasformare radicalmente una rappresentazione di tono elevato e di adattarla ad esigenze visive più semplici e di immediata evidenza rappresentativa.
Attraverso la produzione settecentesca di alcune grandi stamperie europee si può dimostrare che la genesi di talune immagini a stampa era un procedimento spesso alquanto laborioso. Lungi dal costituire una testimonianza di spontaneità, queste opere risultano spesso essere frutto di serrate mediazioni culturali tra le istanze degli incisori, le intenzioni degli editori e le esigenze del pubblico. Le composizioni non ricercavano effetti di gradevolezza nello stile elegante, ma nei tratti decisi e nelle vivaci e grossolane coloriture che colpivano l'occhio; una volta utilizzati i fogli venivano distrutti e, sostituiti con altri nuovi e dal segno più fresco. Si spiega così il motivo per cui tale materiale, considerato d'uso comune, è andato progressivamente rarefacendosi fino quasi a scomparire del tutto, salvato a stento in questo secolo dal lungimirante intervento di pochi illuminati collezionisti che ne compresero il grande valore per la ricostruzione del patrimonio culturale e figurativo europeo[1]. La ditta Remondini di Bassano, la più importante stamperia di immagini popolari operante in Italia (e tra le più rilevanti in Europa), attiva ininterrottamente tra la fine del secolo XVIII e l'inizio del XIX, impostò gran parte della sua attività editoriale nella diffusione massiccia di stampe rimaste, fino ad allora, prerogativa degli artefici meno raffinati che non lavoravano né per il collezionismo, né per il mercato dell'arte. I soggetti riguardavano figure di santi e motivi tradizionali del repertorio "minore" caro all'immaginario dei ceti rurali e artigianali, ma anche ai gusti molto convenzionali di una parte della borghesia e del clero. Un pubblico normalmente guidato da gusti molto conformistici.
Affrontiamo il caso di un'immagine popolare settecentesca, foglio volante di ambito veneto e di autore anonimo, erroneamente identificata da una scritta incisa nella parte inferiore come Fuga in Aegiptum, in realtà raffigurante il Ritorno a Nazaret, conservato presso la Civica Raccolta delle Stampe "A. Bertarelli". Si può identificare il soggetto, nonostante sia trattato similarmente alla "Fuga", per la diversa età di Gesù, che qui non è più un infante, bensì un fanciullo.
Il tema della Sacra Famiglia, pur vantando un culto di antichissima tradizione e una stabile fortuna nelle arti figurative, fu introdotto nel calendario liturgico solo nel 1863 e collocato alla terza domenica dopo l'Epifania.
La nostra stampa, di fattura piuttosto grossolana (i risultati stilistici sono deludenti e l'esecuzione denuncia una certa imperizia disegnativa) è un'incisione su rame uscita dai torchi della stamperia Remondini di Bassano nella seconda metà del secolo XVIII. Non si può negare che l'elaborato debba essere assegnato alla categoria delle espressioni popolari, ma non si cada nel facile errore di pensarlo come assolutamente immune da condizionamenti dell'arte di qualità superiore.
Al lettore occorrerà un po' di pazienza per ripercorre a ritroso la storia dell'immagine; il fatto che si tratti di un esemplare remondiniano, concepito cioè all'interno di una vera e propria "fabbrica di immagini", dove gli incisori avevano a disposizione una straordinaria abbondanza di modelli di più svariata provenienza, da imitare o replicare a piacimento, rende più semplice la ricerca delle sue fonti ispirative, sia di quelle più dirette che di quelle più remote.
Partiamo da queste ultime. All'origine di un'articolata sequenza iconografica di carattere sacro esiste spesso un dipinto, celebre per la qualità dell'esecuzione o, più spesso, per le ragioni del culto, eseguito da un pittore di talento e di fama consolidata. In questo caso il modello germitativo della serie che stiamo per analizzare è un Ritorno dall'Egitto[2] di Pieter Paul Rubens, olio su tavola trasportato su tela, circa del 1614. Si tratta di un'opera che il maestro fiammingo dipinse in origine per l'oratorio dell'arciduca Alberto a Bruxelles, prendendo a modello, per il volto del Bambino, il proprio figlio Albert, figlioccio dell'arciduca committente della pala[3].
Doveva trattarsi di un dipinto concepito prevalentemente per la devozione e la contemplazione privata, data la destinazione a un ambiente riservato e il riferimento al mondo degli affetti squisitamente personali del committente.
Probabilmente fu per questa ragione, perché il quadro non era visibile al pubblico, che l'artista si adoperò affinché fosse riprodotto e fatto conoscere tramite le stampe, beni artistici di vasta diffusione. Infatti, dello stesso soggetto è conosciuta una replica, eseguita da Rubens intorno al 1619 in formato più ridotto, oggi nella collezione del duca di Leicester a Holkam Hall a Norfolk. È noto agli studi anche un disegno della prima metà del XVII secolo, tradizionalmente attribuito ad Antoon van Dyck, che si può mettere in relazione con il dipinto di Rubens, conservato a Parigi nel Musée du Louvre (Département des Arts graphiques, inv. 20304), realizzato forse a sostegno dell'incisione che ne trasse Lucas Vosterman nel 1620. Questa stampa, a sua volta, fu replicata in controparte, sia da un incisore anonimo[4], in dimensioni minori, sia da un non meglio identificato J. Johnson nella seconda metà del XVIII secolo. Entrambe queste copie si distinguono per l'assenza della cicogna in alto a sinistra e i fogli così ricavati, che pur ripetono con una certa fedeltà le caratteristiche pittoriche e disegnative dell'originale rubensiano, a causa di una certa forzatura interpretativa, mostrano la figura della Madonna leggermente mutata nella conformazione fisica[5].
Della stessa immagine esiste una versione popolare. Anche questa stampa all'acquaforte e bulino che reca l'autografia di J. Georg Hertel, stampatore di Augsburg, in Baviera, riporta il titolo erroneo Fuga in Aegyptum.
Fino a ora è stata individuata una breve sequenza di immagini da cui si ricava la struttura di uno schema logico piuttosto semplice: da un'opera pittorica illustre vengono tratte stampe di riproduzione per finalità esclusivamente documentarie e divulgative il più possibile aderenti alle caratteristiche stilistiche e formali del modello; queste, a loro volta, possono ispirare copie di tono popolare senza alcuna pretesa artistica, ma di maggiore autonomia iconografica. Infatti la stampa popolare sacra è valutata per ciò che è rappresentato e, come nei casi esaminati, per il suo significato spirituale. In questo senso acquistano fondamentale importanza le intitolazioni, generalmente iscritte in cartigli e ben evidenziate all'interno del foglio, introdotte col preciso scopo di suggerire la corretta interpretazione del soggetto, o perlomeno una lettura non lasciata alla fantasia personale. Poiché il destinatario non ha alcun interesse a sapere se una certa composizione sia stata inventata da Rubens o da altro artista di livello, si assiste alla reiterazione del medesimo motivo riproposto di volta in volta con varianti più o meno sensibili, che a lungo andare rendono difficilmente riconoscibile, per lo studioso, la relazione figurativa con il prototipo iniziale.
La stamperia Remondini di Bassano possedeva un ricchissimo campionario di fogli di differente fattura e provenienza; si raccoglievano opere di maestri del passato o celebri contemporanei e i fogli popolari a larga diffusione di altri stampatori residenti a Venezia, Augsburg, Parigi. Gli incisori che operavano all'interno della struttura, o al proprio domicilio per conto dei Remondini, da questo repertorio attingevano a piene mani fonti d'ispirazione.
Chi scrive ha provato, sulla base della documentazione remondiniana conservata alla Civica Raccolta Bertarelli di Milano, che la forma di una stampa popolare sacra veniva generalmente a lungo meditata e studiata "a tavolino". L'azienda, infatti, tramite agenti, diffondeva capillarmente i suoi prodotti non solo su tutto il territorio europeo, ma anche su parte della Russia e dell'America. Le immagini dovevano dunque essere adattate alle esigenze e ai generi figurativi locali. Per questa ragione alla base di molte stampe remondiniane custodite negli archivi della Bertarelli non è raro leggere lunghe annotazioni manoscritte su come migliorare questo o quel particolare. Inoltre si interveniva con vistosi segni in lapis rosso sulle tavole ancora abbozzate e si ritoccavano i dettagli ritenuti poco convincenti per la sensibilità di quel pubblico a cui la stampa era diretta. Un'immagine veniva rielaborata e andava perfezionandosi attraverso svariate prove e verifiche. La versione finale, prima della fase della commercializzazione, doveva essere sottoposta all'approvazione di un supervisore tecnico-artistico che aveva il compito di giudicare se la soluzione grafica era appropriata e fornita del necessario decoro estetico in rapporto al contenuto.
Esaminiamo ora un altro Ritorno a Nazaret, un'acquaforte anonima dal segno veloce, ma controllato e sapiente, attribuibile a un incisore attivo nella seconda metà del secolo presso l'atelier Remondini di Bassano. Attraverso la precedente tavola di Augsburg, a cui si ispira direttamente per il motivo e l'impianto compositivo, viene mediato, sia pur alla lontana, il riferimento al soggetto di Rubens, nonostante il ripetersi dell'intitolazione arbitraria che allude ancora una volta all'episodio della fuga in Egitto.
Del celebre modello pittorico fiammingo, non rimane a questo punto che un vago ricordo; l'interpretazione del tema qui si è spinta a personalissimi livelli di semplificazione formale e iconografica. L'immagine, infatti, vuole rifuggire da qualsiasi implicazione simbolica a sfondo intellettuale evitando valenze teologiche di difficile accessibilità. Inserendo nella parte superiore due figure di cherubini che fanno capolino da una nuvoletta, garbato particolare tratto da una stampa veneta coeva, l'incisore ha inteso tuttavia accennare a una superiore presenza soprannaturale. Questo dettaglio conferisce indubbia sacralità alla scena che per altri aspetti ha accenti narrativi di marcato realismo. L'abbigliamento dei personaggi, infatti, è estremamente semplificato e normalizzato; i panni della Madonna ripropongono dettagli reali del corredo vestimentario feriale dei ceti rurali. Si tende così ad accentuare la verosimiglianza della rappresentazione ponendola in diretto rapporto con la condizione sociale dei potenziali destinatari. Il tono generale si accorda a un registro affabilmente confidenziale al fine di agevolare una serena contemplazione meditativa.
Nonostante i correttivi apportati al testo di riferimento e cioè la stampa tedesca poc'anzi menzionata, colui che nell'azienda aveva il compito di giudicare nel merito il risultato finale del lavoro ha tuttavia ritenuto di dover esplicitare per iscritto alcune obiezioni che, dal punto di vista storico-critico, rivestono estremo interesse.
Nel margine inferiore del foglio si legge, infatti, la seguente scritta tracciata a penna e inchiostro nero:
far far più giovine di trent'anni (san Giuseppe) poca barba.
Chiuder la bocca al bambin.
Per quale ragione il padre putativo di Gesù, che dimostra una settantina d'anni, doveva essere ritratto "più giovane", in modo da sembrare circa un quarantenne e il Bambino doveva rivolgere alla Madonna un tenero sguardo d'affetto ma "tenendo la bocca chiusa"? Il quesito, come vedremo, non è affatto banale.
Il culto di Giuseppe esaltava la rappresentazione del ritorno a Nazaret perché egli vi appariva come protagonista, custode della "santa infanzia" di Gesù. Nel momento in cui data questa stampa, lo abbiamo già ricordato, la figura di Giuseppe era ormai cresciuta in umanità e realismo, in proporzione alla sempre crescente devozione, perdendo quell'aspetto canuto e modesto di certe interpretazioni medievali. Si sentiva viva la necessità di rappresentarlo come un uomo "giovane, forte e vigoroso che doveva proteggere la Vergine" (Jean Van Der Moelen detto Molanus); eruditi dei secoli precedenti avevano sostenuto apertamente l'opinione secondo la quale Giuseppe, quando sposò Maria, aveva un'età intorno ai trenta o quarant'anni, come profetizzato da Isaia "Juvenis habitavit cum virgine" (K. Stengel, Josephus, hoc est Sanctissimi educatoris Christi ... Vitae historia Monacum 1616).
Il santo, inoltre, nel secolo successivo verrà ancora additato da Leone XIII come modello di paterna vigilanza e provvidenza, concordia e fedeltà coniugale, esempio di dignità da imitare per i ceti popolari a causa della sua condizione di artigiano.
Per quanto riguarda l'atteggiamento del Bambino si deduce che il volto esprime una tenerezza troppo languida; ne risulterebbe una leggiadria tanto poco plausibile da sembrare quasi un attributo sconveniente. Meglio quindi adottare alla lettera la versione evangelica, più idonea a descrivere il tratto saliente della sua condizione filiale Et erat subditus illis (e stava loro sottomesso; Lc 2), come si può leggere nelle iscrizioni che accompagnano analoghe rappresentazioni della scena.
Nell'immagine popolare le figure più ricche di umanità appaiono proprio quelle di Giuseppe e del Bambino. Mentre nel quadro di Rubens la persona di Giuseppe, che col braccio levato indica ai suoi cari il percorso da seguire, appare ancora di concezione tradizionale e di identità poco definita (ubbidisce al proprio ruolo, ma con serietà grave e senza partecipare al muto colloquio degli occhi tra il Figlio e la Vergine) nella stampa egli si afferma come protagonista di rilievo. Qui inoltre non sfugge l'intrecciarsi affettuoso degli sguardi tra i membri della terna divina. Il Fanciullo con la mano sinistra si tiene stretto alla mano della Vergine, la quale incede in atteggiamento assorto. Con gli occhi rivolti alla madre egli sembra attendere da lei un cenno o un incoraggiamento al cammino. Allo stesso modo protende la destra con le palme aperte in direzione del padre perché questi l'afferri e lo sostenga nel passo. In altre tavole di soggetto simile, il Bambino è mostrato non solo attorniato dalle figure protettive dei genitori, ma da loro letteralmente sorretto per entrambe le braccia, quasi non potesse procedere da solo senza incorrere in pericoli. Se nella tavola rubensiana Gesù conserva, pur nelle sembianze infantili, i tratti della divina regalità e tradisce una certa innocente baldanza, in questa incisione la piccola figura dichiara invece tutta la sua puerile fragilità che trova sicurezza e concreta difesa solo nella dipendenza del rapporto filiale. Giuseppe volge il capo verso il figliolo ricevuto in custodia dallo Spirito e lo scruta con paterno compiacimento. La fantasia del tempo amava ritornare agli anni dell'infanzia del Signore esaltando i numerosi gesti di tenerezza di Giuseppe verso il Fanciullo. Addirittura si ammetteva che Giuseppe avesse un cuore così tenero che non avrebbe potuto assistere alla Passione di Cristo senza morirne di dolore, la Vergine, invece, era di animo più forte[6]. È proprio l'estrema umanizzazione di Giuseppe il dato che distingue in maniera decisa il soggetto nella versione colta da quello trattato all'interno della sensibilità popolare.
Non resta dunque che verificare se quei suggerimenti manoscritti, annotati con tanta precisione da un ignoto censore, siano stati più o meno recepiti nella produzione seriale dell'immagine. La risposta è affermativa in quanto la stampa presentata in premessa non è altro che una copia della precedente, realizzata in un momento successivo con le modifiche richieste da parte dell'azienda. Notiamo che Giuseppe è stato effettivamente ringiovanito rispetto alla tipologia tradizionale e il Bambino ora volge lo sguardo fiducioso verso la Madonna, ma con un riserbo che tradisce un atteggiamento di rispettosa umiltà verso i membri della famiglia terrena.
Purtroppo la resa grafica molto sommaria, cancellando la vivezza degli sguardi e la spontaneità dei gesti, ci priva in gran parte della dimensione psicologica, elemento di principale interesse nella composizione di riferimento.
Una stampa popolare sacra, mostrandosi preoccupata di incrementare la contemplazione devota, si assumeva generalmente compiti (e responsabilità) che l'iconografia ufficiale ignorava, o trascurava più o meno deliberatamente. Per raggiungere il proprio scopo nel modo più diretto possibile si piegava a un linguaggio spesso scarno, ma idoneo a una comunicazione sintetica .e immediatamente eloquente, un gergo che definiremmo colloquiale se paragonato alla lingua più forbita, ma fredda delle rappresentazioni di tono elevato. In ciò consisteva l'innegabile originalità della produzione popolare.
Abbiamo dimostrato, tramite esempi, come nei passaggi attraverso strati sociali diversi un'iconografia colta poteva subire progressive trasformazioni di forma e, sovente, anche di significato. Si è visto infatti che nella rappresentazione popolare non era molto importante che il destinatario conoscesse esattamente il fondamento storico dell'episodio rappresentato e distinguesse in modo appropriato tra il momento della fuga in Egitto e quello del ritorno in Palestina. Poiché la circostanza della "fuga", descritta soprattutto nelle varie versioni apocrife, era più adatta a stimolare la partecipazione commossa, ecco che alla scena veniva apposta una intitolazione conforme, senza alcuna preoccupazione di coerenza logica tra il testo e l'immagine. Ma se anche le qualità degli illustri prototipi si alteravano progressivamente o impallidivano a causa delle numerose imitazioni, il contenuto si conservava da un secolo all'altro. Doveva trionfare, come principio eterno e immutabile, l'idea dell'unità e del tenace vincolo di amore tra i membri della famiglia terrena di Gesù.
Infatti il tema della Sacra Famiglia in cammino non aveva alcun interesse come cronaca edificante, ma veniva adottato, soprattutto nelle stampe popolari, per rendere visibile il mistero di una presenza divina incarnata nella disarmante debolezza di un bambino, bisognoso della costante sollecitudine dei propri genitori. Dall'immagine ci si attendeva un messaggio etico, tanto più penetrante quanto più era marcato il realismo dei personaggi e la situazione d'insieme nei suoi aspetti sentimentali. Solo così l'immagine acquistava un valore assoluto che trascendeva ogni contingente implicazione di natura estetica o stilistica.
Infatti, nel trascorrere del tempo, l'efficacia di una rappresentazione di carattere sacro si manteneva intatta molto più a lungo quando veniva assimilata non per la sua piacevolezza, ma per il puro contenuto spirituale. Non aveva importanza se queste tavole erano spesso maldestramente incise. Al contrario, la struttura semplificata e la rigida schematicità del segno grafico, accentuandone fortemente la dimensione didattica, ne aumentavano l'interesse agli occhi del pubblico devoto.